ArtWave: “Majara” e la magia di un percorso musicale

Molte volte, capita che un album ti catturi, ti rapisca e ti porti lontano dal luogo in cui lo stai ascoltando.
Ti ritrovi, improvvisamente, all’inizio di un percorso dove ogni cartello ti indica la direzione per raggiungere la prossima tappa. In questo caso, stiamo parlando di ben otto tappe, o tracce, musicali.

Nel loro primo album autoprodotto, i Majara decidono di staccarsi da tutto ciò che possa ricondurli a qualcosa di specifico, rimanendo liberi come foglie al vento ma con le radici ben salde che affondano nella terra delle musiche popolari.

La “majara”, nel Sud Italia, era una donna anziana molto saggia la quale possedeva non solo sapienza e oculatezza, ma anche poteri magici che le permettevano di curare ogni tipo di male, tra cui quelli che affliggono l’animo umano nel profondo.

Il gruppo, e l’album omonimo, ha come obiettivo proprio questo: curare l’ascoltatore.
Staccare la spina, per circa 40 mn, attraverso questo disco, è possibile. Otto tracce che cullano e trasportano l’ascoltatore verso lidi lontani, inesplorati ma sicuri.

Luoghi in cui la musica classica occidentale e il jazz si incontrano, si scontrano, e vengono resi malleabili dal tocco professionale del gruppo. Le armi utilizzate, per assicurare la riuscita del progetto, sono proprio gli strumenti: clarinetto e contrabbasso, parlano un linguaggio che va a braccetto con quello offerto da mandola, pandeiro e chitarra.
Le influenze sono molteplici e, come anticipavamo all’inizio, trasportano le orecchie dell’ascoltatore verso musiche arabo-andaluse, per poi farle affacciare in un jazz con ritmi che richiamano la cultura persiana.

Il viaggio ha inizio proprio con la prima traccia, il punto di partenza di un percorso confortevole e musicalmente colto: “Camarda”.
Ritmi incalzanti, travolgenti e una chitarra che fa scivolare l’ascolto, facendo immergere l’ascoltatore in un’esperienza unica.

In “Fenestrelle”, il narratore principale racconta ambientazioni e vicende cupe attraverso arpeggi a sei corde.

Natiwa”, invece, rappresenta un bellissimo punto in cui ogni strumento dice la propria, dialogando incessantemente con gli altri elementi. Una discussione costruttiva che si porta a casa una composizione arguta.

L’elemento storico è parte integrante dell’album ed è molto presente nel brano “Grancìa”. Il titolo del brano, infatti, prende nome dal Parco della Grancìa in Lucania, il quale in passato fu uno dei covi principali dei briganti della zona.

Agavè”, “Tarassaco” e “Arroz”, invece, si rifanno ad una poesia naturale: l’agave, pianta centenaria la cui fioritura – unica nel suo ciclo vitale –  corrisponde, nello stesso tempo, alla sua morte; il tarassaco, fiore presente in diversi luoghi della Basilicata; l’arroz, che significa “riso” nella lingua spagnola, il quale rimanda ad uno scenario in cui il lavoro nelle risaie è in grado di estraniarsi dal tempo e dallo spazio circostante.

I Majara, infine, decidono di concludere il viaggio con il calare del sole e attraverso le note di “Quasimodo”.
Un titolo che, non a caso, richiama il sempiterno Salvatore Quasimodo, autore di “Ed è subito sera”, composizione che narra la fine di un uomo, il suo decadimento. Nella fine del brano, infatti, il dialogo tra gli strumenti, che ripercorre il mood e le atmosfere del disco, viene interrotto severamente da un’unica nota.

La forza di questo disco è data, principalmente, dalla grande professionalità musicale e dall’immensa carica narrativa che i quattro artisti riescono a fare propria.
Un racconto di un viaggio solitario che, nonostante tutto, riesce a far sentire l’ascoltatore, in questo caso il viaggiatore, meno solo. Le ambientazioni, i personaggi incontrati e una intelligente ricerca introspettiva, lo avvolgono, e lo accompagnano, in un viaggio che in realtà è solo all’inizio.

 

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