È una fortuna che dal sostrato delle musiche indipendenti emergano album (e artisti) come “Majara”. Sotto questo nome vi è un ensemble di musicisti raffinatissimi (Francesco Paolino alla chitarra e mandola, Mario Brucato al clarinetto, Emiliano Alessandrini al pandeiro), coordinati dal contrabbassista Giuseppe “Pippi” Dimonte. La musica che assemblano è piena di grazia, acustica e profonda, avvolta in un suono preciso e morbido. Il quartetto si muove in modo delicato e deciso, definendo uno spazio ideale entro il quale prende forma un racconto musicale (i brani sono tutti strumentali) articolato, libero dalle “generalità” più conosciute, acclamate e, generalmente, ricondotte all’Italia meridionale o, per analogia, ai lembi estremi di ogni regione. Questo aspetto ha un suo interesse peculiare, soprattutto in relazione al fatto che “Majara” è stato promosso, almeno in questo primo periodo, con riferimenti non solo al jazz, ma anche alle tradizioni musicali popolari. Lo si può leggere nel sito (scritto in inglese) dedicato al progetto, laddove si mette alla prova (con esiti positivi che rinvigoriscono anche gli animi più scettici) la tenuta e soprattutto la forza dell’idea di musica popolare, concetto ampiamente reificato e degradato da molta retorica e altrettanti approcci (di studiosi, musicisti ecc.) semplicistici. Questo processo di riabilitazione (che non credo interessi più di tanto il quartetto in questione, che involontariamente ci è finito comunque dentro) non passa tanto per assunti come “the quartet’s first work manifesto proves to be the encounter and the mingling of very different musical cultures”, che già da solo vale molto per chi ascolta il disco. Quanto per alcune frasi più “spinte”, dentro le quali si trasporta in un contesto internazionale l’dea (semplice ma affatto scontata) secondo la quale la musica assume significati differenti a seconda di tanti fattori: il contesto entro cui si produce, il contesto a cui fa riferimento chi la produce, la visione e la sensibilità di chi la suona. Allora, leggendo ancora da quel sito, si incontra lo stadio successivo di questa riflessione, che rimanda sì a un’idea di fondo, cioè al contesto ispiratore, ma senza la paura che questo possa irrigidire i “movimenti” dei musicisti: “Just like the majara”, che viene descritta come una figura complessa con ruoli specifici nell’immaginario e nella socialità popolare, “the Lucanian double bassist’s quartet filters their Mediterranean resonances to taint them with classical western music and some good contemporary jazz, diluting everything down with their own compositional creativity”. Sta tutta qui la bellezza dell’album, nel valore che la sensibilità di Dimonte e i “suoi” musicisti assegnano alla plausibilità del dualismo, a quello spazio artistico che non incorpora passivamente né espunge arbitrariamente, ma raffina, cesella, riordina tutti gli elementi che possono rientrare nel proprio racconto. Trovo sinceramente illuminante questa prospettiva, tanto nella sua complessa variabilità, quanto nella sua variabile complessità: si può ammettere senza sanzionare, si può dirozzare senza stigmatizzare o censurare. Si può suonare – come fa il quartetto – una musica improntata al jazz (scritta e improvvisata) pensando ai linguaggi popolari: che siano andalusi o lucani, arabi o nordeuropei. Ecco che, in questo quadro, gli otto brani di “Majara” riflettono la bellezza di una produzione musicale lontana dallo stereotipo e dalle costrizioni: si ascolta il disco e si capisce che chi suona sa cosa sta facendo, partecipando fino in fondo non a compensare una o chissà quante fratture estetiche, non a “riformare” un equilibrio, ma a “formarne” uno, nuovo, stabile e valido almeno per la durata dell’album.